FUCACOSTE E COCCE PRIATORJE
A cura del prof. Michele Lepore
Nemo me lacrumis decoret, nec funera fletu faxit. Cur? Volito vivus per ora virorum(virum)
(Nessuno mi onori con lacrime, né Accompagni il mio funerale col pianto. Perché? Perché vivo, vado per le bocche degli uomini). Autoepitaffio di Ennio: Cicerone, Tusculanae,I,34; De senectute,73
V’è un luogo in Capitanata, dove la sera del 1° novembre, col calare delle tenebre, si accendono i fuochi in onore dei defunti: è Orsara di Puglia, paese di 3500 anime, situato sui primi contrafforti del preappennino appulo-campano. Da tempi remoti questa tradizione si rinnova intatta, a volte più sentita, a volte silenziosa, ma sempre con le stesse peculiarità: fuoco e culto dei morti si fondono in un binomio inscindibile da tempo immemorabile. Ultimamente è cresciuta l’attenzione verso questa manifestazione, prima in ambito provinciale, successivamente in ambito regionale con qualche curiosità a livello extraregionale. Non sono fuochi che si accendono per risvegliare qualche atavico istinto primordiale né si vuol cercare di imitare qualche festività venuta d’oltreoceano, facendo un viaggio a ritroso. Con Hallowen Orsara non ha alcun punto di contatto: è esattamente l’opposto di quello che i mass media ormai vogliono propinare per quel suo carattere commerciale e consumistico che ha assunto in terra d’America. Quindici giorni prima della festa d’ognissanti, adulti, ragazzi e bambini fanno a gara nell’accatastare ginestre e altra legna. Un elemento caratterizzante del falò è rappresentato dalla ginestra, arbusto che cresce abbondante sui pendii dei nostri monti e delle nostre colline. Il crepitio di questi arbusti risuona per tutte le strade e le faville arrivano in alto ad illuminare questa notte di ricordi, d’amore ma anche d’ataviche paure che il tempo non ha cancellato. Il fuoco è l’elemento magico; il suo calore e il suo bagliore, come un tempo, rendono surreale l’atmosfera e per tutti è l’occasione per ricordare, per avvicinarsi all’aldilà. Solo in questo luogo i falò , “fucacoste”, si accendono la sera del primo novembre: per tutta la notte ardono numerosissimi falò, vicino alle abitazioni si appendono le zucche antropomorfe con una candela accesa all’interno[1] e le vecchiette, prima di andare a letto, prendono dal falò un po’ di brace e la portano in casa, deponendola nel camino o in un braciere. E’ convinzione che le anime dei defunti ritornando fra i vivi facciano visita ai parenti e ritornino alle dimore dove avevano vissuto, si riscaldino e continuino il loro peregrinare per tutta la notte. E’ dunque un atto di cortesia per i defunti, un gesto d’amore per queste anime che ritornano, ma è anche atavica paura per il regno ultramondano, quasi come se mancando al dovere dell’ospitalità o del calore familiare il defunto possa vendicarsi sui vivi. Altro elemento curioso era ed è la compartecipazione al fuoco: se non si provvede a farne uno proprio, si partecipa al rito mediante l’apporto di qualche fascina o d’alcuni tronchi a quello del vicino.
Perché i falò si accendono il primo novembre? Per quale motivo era portata in casa la brace? E perché si ponevano vicino alle porte le zucche con volti antropomorfi (di demoni o con le sembianze dei cari estinti?).? Qualcuno ha tentato una ricostruzione fantasiosa senz’alcun aggancio alle tradizioni antiche ed alle manifestazioni dei nostri padri. Ancor più fantasiosa è l’accostamento ad Halloween, che non fa parte della nostra cultura, così come non ne fanno parte le varie forme di consumismo (calze, distribuzione di dolci, etc…).
Perché “fucacoste”? Il termine deriva direttamente da due parole greche:Φλογεος(fiammante, ardente) + ακουστος (udibile, da udirsi…), e sta ad indicare un fuoco che si sente, schioppettante. E sono le ginestre a far sentire il loro schioppettìo mentre bruciano.
E’ UNA TRADIZIONE MILLENARIA, NON E’…..HALLOWEEN
Ad Orsara, caso unico in Italia, la tradizione dei falò risale a tempi remoti: è una tradizione della civiltà contadina rimasta immutata nel tempo e che sempre si è celebrata nell’identica maniera, al limite tra il profano e il sacro. Nella preistoria l’uomo accendeva il fuoco con l’intento di riscaldare, purificare e tenere lontani gli spiriti del male. Anche oggi il fuoco ha le medesime peculiarità: si accende il fuoco per poter far ritrovare la via di casa alle anime del purgatorio e offrire loro un po’ del calore che il regno oltremondano non può più offrire; è calore umano, è calore fisico che i vivi intendono trasmettere alle anime dei propri cari.
Un tempo, quando in quest’angolo di mondo non vi era il fragore dei media ed il carattere profano era ancora vivo, si usava porre in una bacinella piena d’acqua dell’olio e sopra si poneva un treppiede con una lambada: alla fioca luce della candela si poteva assistere, secondo i vecchietti, alla sfilata delle anime del purgatorio. Per le strade risuonava il crepitio delle ginestre e in ogni angolo ardeva un fuoco. Elemento caratterizzante era la ginestra. Per quale motivo? La ginestra è un arbusto che cresce abbondantemente sui fianchi dei monti e delle colline orsaresi ed in più esso è profumato e si volatilizza facilmente, facendo sembrare che il legame cielo terra si compia sotto i nostri occhi. Tale era il senso del fuoco presso le popolazioni antiche che accompagnava sempre i sacrifici2. Ad Orsara falò e culto dei morti sono un binomio inscindibile che non trova riscontri in altre realtà.
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2– Enciclopedia Treccani Vol. XIV FRA-GIA,pp. 202-203: – I FUOCHI SACRI. Elemento insieme distruttore e benefico, il fuoco è oggetto a un tempo di timore e di venerazione, l’accenderlo diventa una cerimonia sacra e si ha grande cura di custodirne la purità, che molti popoli, specie dell’antichità, tengono continuamente acceso, affidandone la custodia a vergini, la cui castità è un obbligo rituale gelosamente osservato e vigilato. Basterà ricordare, a tale proposito, le Vestali romane; ma lo stesso costume si ritrova presso popolazioni diversissime…Il fuoco nuovamente acceso ha invece un carattere particolare, esprime spesso l’inizio di una vita nuova;mentre in molti casi è prescritto l’uso di fuoco tolto dal focolare domestico o addirittura da quello del villaggio o della patria. Ché il fuoco- e specie la sua accensione- implica un rapporto di comunione sacra. E, spesso, il fuoco che s’adopera per usi rituali deve essere acceso nella maniera tradizionale. Al carattere sacro del fuoco si riconnette anche l’uso di esso nelle cerimonie di iniziazione, al suo potere distruttore la capacità purificatrice che gli è attribuita presso vari popoli e di cui si può ritenere un’applicazione particolare l’ordalia che consiste nel camminare attraverso il fuoco acceso.…il fuoco è usato nei sacrifici al fine di volatilizzare le offerte per farle pervenire alle divinità, e spesso nelle cerimonie funebri dei popoli presso cui vige l’uso d’incenerire i cadaveri. Il carattere sacro del fuoco trova un’espressione più concreta nella venerazione di vere e proprie divinità del fuoco o del focolare, quali Estia in Grecia e Vesta in Roma. …-
ORIGINE MITOLOGICA
Ma dove e quando ebbe origine questo culto? Si è pensato ai Celti, che avevano un culto particolare per i defunti e celebravano l’avvento della stagione invernale con l’accensione i falò. I Celti,però, hanno solo raccolto un’eredità e, con qualche modifica, l’hanno fatta propria. Certe tradizioni non hanno patria e non sono attribuibili ad un popolo. Per cercare di capire l’origine del culto dei defunti e del fuoco ho fatto un viaggio a ritroso nel tempo. I risultati dell’indagine che mi hanno sorpreso e meglio mi hanno fatto capire il mistero di questo strano culto, che vede mescolarsi sacro e profano in un evento che si perpetua da secoli sempre con le stesse caratteristiche. La tradizione dei falò e del culto delle anime dei defunti non è nata oggi né appartiene ad un popolo. Le sue origini vanno collocate nell’area mediterranea ed in quella orientale.
LA MORTE E IL FUOCO NEI MITI
Fu proprio dall’area mesopotamica che con i Sumeri ebbe grande risalto il mito di Inanna e Dumuzi[2]. Esso è un riferimento preciso al ciclo naturalistico vegetativo, personificato dalla dea Inanna, che rispecchia la cessazione della fertilità. Presso gli Assiri lo si rinviene identico; cambiano i nomi delle divinità e le finalità del viaggio”4. Il mito venne, per quella naturale osmosi, assorbito dai Fenici: Ishtar divenne Astarte e Tammuz , Tammuz Adone[3]ed ebbe carattere sacro e orgiastico. Presso i Fenici però già vi fu una sistemazione di quello che sarà il definitivo mito di Venere e Adone.”. . Presso gli Egizi il mito divenne di Iside e Osiride[4]. In Frigia aveva come protagonisti Attis ( Tammuz Adone) e Cibele[5](Inanna,Astarte, Iside,Afrodite, Euridice). I Traci ne elaborarono una variante. Orfeo era il miglior citaredo, prediletto da Apollo. Cantava così bene da smuovere col suo canto persino le pietre e da ammansire le bestie feroci. Sua sposa era Euridice8. In Grecia il mito ebbe, in origine, per protagonisti Demetra e Kore (o Persefone) meglio conosciuto come il “Ratto di Persefone o Proserpina”[6]. A Roma Demetra si identificò con Cerere e Persefone con Proserpina. In Grecia e successivamente a Roma si ebbe una variante dei miti sopra citati con l’assimilazione di quello asiatico. Noto era il mito di Afrodite e Adone[7]in Grecia e di Venere e Adone a Roma[8]; Afrodite e Venere, che era un’antica deità italica della primavera, detta Anche Libitina (dea dei morti) si fusero in un’unica divinità. Né meravigli che la dea dell’amore e della bellezza lo fosse anche dei morti: nell’antica mitologia la vita più rigogliosa è messa in relazione con la morte. Tutto questo patrimonio di miti e culture varie pervenne ai freschi popoli del nord attraverso le vie dell’ambra[9] e ancora una volta il mito fu sottoposto a modifiche suggerite dallo stato dei luoghi, dalle proprie tradizioni e dalle consuetudini.
Attis che muore e rinasce, come l’Adone del culto di Afrodite, simboleggia la natura che sorge a vita florida e rigogliosa e poi tosto appassisce e muore.
8 Essendo costei morta di una morte acerba, per essere stata morsa da una serpe egli la pianse in dolcissimi canti che commuovevano fin le pietre. Pensò di scendere agli inferi per vedere di riaverla. Il suo canto, che faceva spuntare le lagrime sul ciglio delle Erinni, commosse perfino il petto di bronzo del re delle ombre. Gli fu concesso che Euridice seguisse un’altra volta Orfeo nel regno della vita, a condizione che durante il tragitto non si volgesse indietro a guardare la sposa, pena la perdita inesorabile dell’amata. La sposa lo seguiva ed egli non seppe trattenersi dal voltarsi indietro per guardare l’amata: d’un tratto sparì. Tornato sulla terra Orfeo andò errante per le montagne della Tracia per dare sfogo al suo dolore e fu miseramente lacerato da uno stuolo di Baccanti (Baccanti o Lene[lenai], o Bassaridi, agitando tirsi(thirsus, asta con la punta ricoperta di pampani o di edera) e fiaccole; ricincendosi il corpo con serpi, tra una musica assordante di tamburelli e di flauti, facevano una processione rumorosa detta tiaso(thiasus), danzando e abbandonandosi a movimenti incomposti, quali suggeriva la sovreccitazione da cui erano invasate. Intanto cantavano inni a Dioniso, gridando Evoè e invocandolo con diversi epiteti, Bromo, Bacco, Iacco, Iobacco, ecc. e laceravano fiere nel bosco, cerbiatti, lumicini, capretti e ne mangiavano la carne sanguinosa. Era tutto ciò un ricordo e un simbolo dello scempio che l’inverno fa di tutti i prodotti onde la terra si ammanta. Invece di primavera si festeggiava il ritorno di Dioniso con spargimento di fiori e lieti canti.
LE VIE DELL’AMBRA
L’ambra gialla è una resina fossile reperibile principalmente nell’Europa settentrionale: i giacimenti più ricchi si trovano nella penisola danese dello Jutland e sulle coste meridionali del Baltico, nell’odierna Polonia. A partire dal III millennio a.C. l’ambra nordica fu molto ricercata e il suo uso si diffuse in tutta Europa; la massima intensità di questi rapporti commerciali tra l’Europa Settentrionale e il Mediterraneo venne raggiunto in epoca micenea, nella seconda metà del II millennio a.C.; in Grecia, ancora nell’età classica, l’ambra veniva riservata al culto di Zeus e adoperata per le sue presunte virtù terapeutiche e medicinali, come testimonia anche Erodoto. I gioielli d’ambra erano ricercatissimi nel mondo romano come si attesta Plinio il vecchio, che ricorda l’ambra nella sua Naturalis Historia”, insieme al cristallo e alla mirra. L’ambra giungeva nel Mediterraneo seguendo le coste settentrionali e occidentali della Francia, oppure lungo i fiumi dell’Europa centrale fino a raggiungere l’Adriatico. La Germania era uno dei crocevia più importanti di questo commercio. Proprio in questo risiede la grande importanza delle “Vie dell’ambra”: nell’aver istituito per la prima volta dei percorsi commerciali che mettessero in comunicazione l’Europa del Nord con il Mediterraneo e nell’aver così creato i presupposti per scambi sia commerciali che culturali, come vedremo avverrà anche per l’osmosi religiosa. Fu durante questi scambi commerciali che il mito di Inanna e Dumuzi fu conosciuto dalle popolazioni nordiche già dal II millennio a.C. I popoli nordici lo fecero proprio con delle varianti dettate dallo stato dei luoghi.
IL CULTO DEI DEFUNTI PRESSO GLI ANTICHI
I GRECI
In Grecia oltre al culto privato la commemorazione collettiva di tutti i defunti della Πολισ
(Polìs) si celebrava ogni anno, in un giorno fisso, che si chiamava ΝΕΧΥΣΙΑ[10] (Sacrifici ai defunti).I familiari si recavano alla tomba del defunto e, oltre ad accendere il sacro fuoco, portavano libagioni rituali fatte di latte e miele e vi deponevano focacce e vivande. Ancor più sorprendente era la festa dei fiori( le Antesterie) che si celebravano nel mese di Antesterione ( Febbraio-marzo) e duravano tre giorni. Il terzo giorno era detto della PENTOLA perché si esponevano le pentole con legumi cotti che dovevano servire come offerta alle anime dei defunti le quali, secondo la credenza comune, quel giorno venivano sulla terra. Altrettanto diffuso in tutta la Grecia era il culto di Demetra e Persefone che aveva in Eleusi il vero centro. Qui si celebravano ogni anno le piccole e le grandi Eleusinie, feste in onore della dea. Le grandi Eleusinie avevano luogo nel mese di Boedromione(seconda metà di settembre) e alludevano alla discesa di Persefone agli inferi, ossia al rientrare della vegetazione nel letargo invernale. Il momento più bello della festa era la grande processione che aveva luogo il quinto giorno e che movendo da Atene si recava ad Eleusi. Chi vi partecipava, non meno di 30.000 persone, si cingeva la testa con corone di’ellera e mirto e, siccome uscivano da Atene sul far della sera, portavano fiaccole in mano, e così entravano in Eleusi nel silenzio della notte e tra lo splendore di migliaia di fuochi.
I ROMANI
A Roma i defunti erano ricordati dal 13 al 22 febbraio, periodo della festività dei Parentalia. Si celebravano gli anniversari di tutti i morti della famiglia che culminavano nella Karista o Cara Cognatio del 22 febbraio in cui si riuniva tutta la famiglia per banchettare in onore dei parenti morti. A tale banchetto il defunto occupava un posto d’onore con una sedia vuota(Cathedra) davanti alla quale venivano poste le vivande che più gli erano piaciute in vita. I Romani distinguevano due tipi di spiriti: quelli benigni, o Lares, e quelli cattivi, o Lemures). I Lari non erano altro che le anime dei defunti, le anime virtuose che divenivano geni tutelari della casa dove avevano vissuto. I Lemures erano, invece, le anime cattive e per allontanarle vi era un rituale che si svolgeva il 9 maggio[11]. Il culto di Demetra (Cerere) e Persefone (Proserpina) si diffuse in tutto l’impero e rimase vivo fino agli inizi dell’ottavo secolo.
UN SAKARAKLUM DI CERERE IN CONTRADA CERVELLINO (Orsara di Puglia)
In Orsara ebbe come centro la contrada Cervellino, il cui nome altri non è che Ker Ouelium, Cerere presso la piccola palude15. Da questa località, infatti provengono numerosi reperti archeologici: neolitici, dauni, greci, romani, medievali, etc…, che attestano in modo inequivocabile la diretta derivazione della ricorrenza dalle Eleusinie greche assorbite dalla civiltà dauna e poi da quella romana.
I CELTI
Questo patrimonio culturale e religioso venne assorbito dalle popolazioni nordiche prima attraverso la via dell’ambra, già menzionata, e si consolidò con la conquista delle gallie. I Romani oltre alle legioni portarono tutto il loro mondo e furono un potente veicolo di trasmissione della lingua, degli usi, delle tradizioni, della religiosità e della cultura latina. Questa osmosi fu totale ed anche i nostri antenati assorbirono qualcosa del loro mondo, come il termine “basia”[12] di origine celtica. I celti a loro volta rielaborarono tutte le usanze e i miti dando nomi diversi ma non modificando la sostanza. Essi assorbirono tutto il patrimonio di miti e di credenze rielaborandolo. Essi scandirono i ritmi della loro vita basandosi sui cicli vitali. Celebravano quattro grandi feste annuali legate ai cicli della natura e alle sue stagioni: Samhain. Imbolc, Belthane e Lughanasad. Queste erano definite feste del fuoco” perché in queste occasioni avveniva l’accensione di un fuoco rituale. Samhain si festeggiava il primo novembre; essa segnava l’inizio dell’anno nel calendario celtico, era il momento di ringraziamento per il raccolto, segnava il tempo della fine dell’estate, il tempo della semina e l’inizio della metà oscura dell’anno. A Samhain si apriva la porta fra l’aldiquà e l’aldilà: gli spiriti degli antenati e degli dei entravano in contatto con il mondo terreno. Questa festa era una celebrazione che univa la paura della notte e degli spiriti all’allegria dei festeggiamenti per la fine del vecchio anno. La notte del 31 ottobre i Celti si riunivano nei boschi e sulle colline per la cerimonia dell’accensione del fuoco sacro e facevano sacrifici animali. Vestiti con maschere grottesche ritornavano al villaggio, facendosi luce con lanterne costituite da cipolle intagliate al cui interno erano poste le braci del fuoco sacro. Dopo questi riti festeggiavano per tre giorni mascherandosi con le pelli degli animali uccisi per spaventare gli spiriti.
IL RITO PAGANO E LA CHIESA
Durante il periodo della cristianizzazione la chiesa cercò di sradicare i culti pagani, ma l’impresa risultò alquanto ardua. Nella stessa Roma , ancora agli inizi del VII secolo, vi erano culti pagani persistenti, ed è , forse, la prova più significativa e certa della derivazione della tradizione orsarese dall’antico culto del mito di Demetra e Persefone. Un predicatore del XIII secolo, Giordano da Pisa o Rivalto, ce ne offre una testimonianza diretta parlando della festa d’Ognissanti ( Giordano da Pisa o da Rivalto Pisa 1260- Piacenza 1311). “La festa di Tutti i Santi Noi si ti facciamo oggi la festa e la solennità di tutti i santi; e infra l’altre ragioni si è questa l’una, però che i pagani in Roma anticamente avevano fatto un tempio nel quale si facea onore e festa e solennità a tutti i demoni del Ninferno, però che in quel templo erano adunati gl’idoli di tutte le provincie; e quivi si era una dea, la quale e’ diceano ch’era la maggiore idea, e chiamavalla Cybele, e diceano ch’era madre di tutti gli altri idii. Credeano che fossero molti idii. Or fu in Roma uno santo Papa, ch’avea nome Bonifazio (Bonifacio IV papa dal 607 al 615 ); et allora uno imperatore cristiano e devoto a la ecclesia, ch’avea nome Focas ( imperatore dell’impero romano d’Oriente dal 602 al 610). Allora il Papa adimandò di grazia allo ‘mperadore, che quello tempio (Pantheon) che i pagani di Roma anticamente avevano così ordinato a la reverenzia di tutti i demoni del Ninferno, e che ancora erano in Roma rimasi de’ pagani che ci facian reverenza e molto rio exemplo, glie dovesse consentire a spegner quella mala radice, e di consacrarlo a onore della Vergine Maria e di tutti i martiri: e però era chiamato Templum Martyrum, e poi si compiè a onore di tutti generalmente i santi; e lo ‘mperadore gliel consentì volentieri. Allora il Papa con lo ‘mperadore e co i chierici, con l’incensi e con tutti i fornimenti si consacrarono quella ecclesia, come detta è, a onore di tutti i santi di vita eterna: e questa è quella ecclesia, che oggidì la chiamano le genti Santa Maria Ritonda, et è in Roma”.
ROMA, 13 MAGGIO 609 d.C.:
PRIMA FESTA DI TUTTI I SANTI
Bonifacio III nel tentativo di far perdere significato al rito pagano chiese ed ottenne dall’imperatore Foca il permesso di consacrare il Pantheon, il 13 maggio 609 d.C., alla Vergine Maria. A Roma ancora si lottava contro il paganesimo, figurarsi in periferia, cioè lontani dalla città di S. Pietro e in pieno territorio Longobardo, essendo Orsara vicinissima al ducato longobardo di Benevento e trovandosi proprio sulla linea di confine tra Longobardia e Romania, quella linea detta “il Limitone”. Successivamente nell’835 Papa Gregorio III spostò la festa di Ognissanti, dedicata a tutti i santi del Paradiso, dal 13 maggio al 1° novembre. La chiesa sovrappose un’interpretazione cristiana ad una pratica di origine pagana. Nel 998 S. Odilone di Cluny diede l’avvio a quella che sarà una nuova e longeva tradizione. Quell’anno, infatti, diede disposizione affinché i cenobi dipendenti celebrassero il rito dei defunti a partire dal Vespero del 1° novembre. Il giorno seguente era, invece, disposto che fosse commemorato con un’eucarestia offerta al Signore, “pro requie omnium defunctorum”. Lentamente l’usanza si diffuse ben presto in tutta l’Europa cristiana, istituzionalizzata ed estesa a tutta la chiesa per opera di Papa Gregorio IV. Molto fecero anche i regnanti, che per assicurarsi l’appoggio del clero, cercarono di sovrapporre questa nuova ricorrenza all’antico culto pagano.
LA TRADIZIONE DEI FAL0’ E DELLE COCCE PRIATORJE OGGI
Oggi la ricorrenza si rinnova, tranne che per la parte consumistica, con le stesse caratteristiche di diversi secoli fa. La sera del prima novembre, all’imbrunire, in tutte le strade, in tutti gli slarghi, in tutte le piazze, ogni piccolo gruppo di famiglie o anche famiglie singole accendono il fuoco e oggi come ieri ognuno partecipa al falò con fascine o tronchi; oggi come ieri si intagliano le zucche, di origine asiatica e che i Romani conoscevano, coltivavano e utilizzavano[13] per rappresentare le immagini dei defunti. La sera tutti si accostano al falò per parlare, per intrattenersi e consumare qualche patata, cipolla o, oggi, salsicce e bistecche. Tutti possono accostarsi a tutti i fuochi, senza alcuna discriminazione; il non accettare un nuovo venuto è sintomo di offesa grave alle anime dei defunti. Oggi come ieri le vecchiette portano in casa un po’ di brace per permettere alle anime dei defunti di riscaldarsi quando, dopo la mezzanotte, essi si aggirano alla ricerca dell’abitazione in cui erano stati da vivi. Davanti alle abitazioni le zucche incavate emanano una fioca luce ad indicare l’abitazione ai defunti. Anche oggi, come tantissimo tempo fa, nelle case si cuoce il grano( i legumi degli antichi greci e lo si condisce con il vincotto. Una componente caratteristica del dolce dei morti è il melograno (quello che Persefone aveva assaggiato) che sta a simboleggiare la fertilità e l’abbondanza. Tutto questo altri non è che una ricorrenza che la chiesa ha saputo ricondurre nell’alveo della sacralità, ma le cui componenti profane restano evidenti. Una credenza che resiste tra le persone è la processione delle anime del purgatorio che sarebbe possibile vedere a mezzanotte ponendo alcune gocce d’olio in una bacinella d’acqua, alla luce di una candela. La manifestazione riscuote ogni anno sempre maggior successo, anche se alcune componenti del tutto estranee si stanno inserendo nella manifestazione, facendole perdere quel suo carattere mesto e allegro.
LA “MUSCETAGLIA” UN TIPICO DOLCE DEI MORTI
La “Muscetaglia” è un tipico dolce orsarese che si consuma il giorno dei morti. I suoi ingredienti fondamentali sono il grano cotto e il vincotto.
Presso i Greci, poiché il cereale veniva messo in acqua e lasciato a bagno, era denominato Tallias (Θαλλι′ας), che stava ad indicare il grano germogliato e la semenza e presso i Romani veniva indicato col nome di frumentum thallitum o thallium (grano tallito o tallio). Una volta che i chicchi erano abbastanza gonfi lo si cuoceva. Esso veniva condito col vincotto, denominato Μουστòς (mosto, ma anche molle, moscio) in Grecia e musteum (mosto, moscio) a Roma. A questi ingredienti fondamentali si aggiungevano i semi di melograno, simbolo di fertilità. Il termine Θαλλι′ας (Tallias) ha anche il senso di abbondanza, floridezza, prosperità e, in Erodoto, assume anche il significato di giuochi e di banchetto funebre. Questo sta ad indicare non solo un legame stretto della tradizione dei falò con il culto dei morti ma una derivazione diretta di questo particolare rituale dal mondo classico e in particolare dall’antica Grecia e dal mondo latino. Volendo semplificare potremmo schematizzare semanticamente il termine “Muscitaglia”:
IN GRECIA: Μουστòσς + Θαλλι′ας = ΜουστòσΘαλλι′α ς ( per apocope ΜουσΘαλλι′α) Mustos + Tallia = Muscetaglia per apocope ( caduta di una sillaba alla fine del primo termine)
A ROMA: Musteum + Thallliun (frumentum thallium) = Musthallia Muscetaglia
L’indagine semantica del termine, non riscontrabile in altre realtà, è la riprova che l’origine di questa tradizione è molto antica e che tutto il folklore ad esso collegato è una diretta derivazione dell’insieme di credenze, miti e usanze che si celano sotto ricorrenze che la chiesa ha saputo magistralmente sovrapporre e veicolare verso l’ortodossia cristiana, ma non completamente cancellare.
[1] Secondo la credenza popolare la zucca accesa avrebbe fatto ritrovare al defunto la casa dove era vissuto, proprio come vedremo farà Demetra per far ritrovare la strada a Persefone.
[2] “…Inanna va agli inferi , di cui è regina Ereskigal, sua sorella, per una visita. Durante la discesa le vengono sottratti abiti e gioielli. La sorella la trasforma in cadavere. Enki la salva. Inanna ritorna sulla terra in compagnia dei defunti e divinità infernali e vuole vendicarsi del dio Dumuzi che non aveva preso il lutto durante la sua dipartita. Dumuzi piange e prega il dio Utu di salvarlo…”. Il mito s’interrompe a questo punto. 4 ..Ishtar discende agli inferi per liberare lo sposo Tamuz.
Per i Babilonesi Tammuz era lo sposo della grande dea Ishtar, che rappresentava l’energia riproduttrice della natura. ( Si narra che Tammuz fosse stato ucciso e che, per amor suo, Ishtar ogni anno scendesse nel regno dei morti e per lunghi mesi soggiornasse “ nella terra dalla quale nessuno ritorna, nella casa delle tenebre, dove la polvere copre le porte e le serrature”). Durante l’assenza di Ishtar, la vita sulla terra rimaneva in sospeso finché la dea non fosse tornata nel mondo dei vivi. In inverno, nel mese che si chiamava appunto Tammuz, tutta la Mesopotamia era in lutto: erano vietati i matrimoni (come oggi) si celebravano cerimonie funebri nelle quali veniva cantata la triste sorte di Tammuz.
[3] La dea Astarte era innamorata follemente di Adone, bellissimo giovane. Un giorno questi andò a caccia sui monti del Libano e fu ucciso da un cinghiale. Addolorata per la morte del suo amante Astante corse in lungo e in largo tutta la Fenicia. Alla fine decretò un periodo di lutto.Alla fine il pianto disperato della dea Astante fece resuscitare il suo sposo.
[4] “Si narra che Iside, che era stata una prostituta a Tiro, amasse Osiride, il dio che prometteva la resurrezione dei defunti. Un giorno Osiride scomparve. Dopo averlo cercato per ogni dove Iside aveva finalmente trovato in mare il suo cadavere mutilato dai pesci, che lo avevano privato degli organi della riproduzione. Iside era riuscita, essendo una maga, a ridargli sia la vita che la capacità di generare. Per questo Osiride simboleggiò la rinascita dopo la morte e presso gli Egizi era il dio dei morti che attendevano, mercè il suo aiuto, di rinascere alla vita.
[5] Attis era un giovane frigio di così straordinaria bellezza che la Gran Madre Cibele lo volle per isposo. Da principio egli corrispondeva all’amore di lei, ma poi le fu infedele e voleva sposarsi con la figlia del re di Pessinunte. Allora lo colpì la vendetta dell’adirata dea. Quando era apparecchiato il banchetto nuziale e tutti i convitati erano insieme radunati, essa penetrò tra loro e li riempì di panico. Attis fuggì sui monti e in un eccesso di furore si uccise. Afflitta, la dea ordinò in onore di lui una cerimonia funebre da celebrarsi nell’equinozio di primavera. I coribanti fra urli selvaggi e strepitando coi tamburi e coi dischi, muovevano alla volta della montagna come per cercare Attis… Questo giovane
[6] “ Un giorno Persefone (Kore o Proserpina) , in compagnia delle Oceanine, si trastullava in un verde prato. Era tutta intenta a cogliere i bei fiori quando, allontanatasi dalle compagne e dalla madre per cogliere un bel narciso, all’improvviso si aprì la terra davanti a lei e ne venne fuori Ades(Plutone) sulla carrozza tirata da cavalli immortali. Non visto l’afferra e sprofonda nelle viscere della terra per farne la sua sposa. Il padre degli dei, Zeus, era consenziente. Demetra aveva udito le grida della figlia ma non sapeva cosa fosse successo. Non ottenendo risposta ai suoi richiami cominciò a cercarla dappertutto, e, accese fiaccole, errò per nove giorni e nove notti per tutti i paesi della terra, cercando con sempre maggior ansia la figlia. Alla fine Elios(il sole) che tutto vede, le rivelò la verità non nascondendole che Giove ne era al corrente. Demetra corrucciata contro il re degli dei si appartò dall’Olimpo e andò a vivere in luoghi solitari immersa nel suo dolore. Nel frattempo cessava la fertilità della terra e una universale carestia minacciava il genere umano. Ai messi di Zeus ella giurò che non avrebbe ridonato fertilità alla terra se non le fosse stata restituita l’amata figliuola. Alla fine Zeus mandò Ermes negli inferi per indurre Ades a restituire Persefone. Questa, però, aveva già gustato il melograno, simbolo d’amore, datogli da Ades e non poteva più ritornare definitivamente alla madre. Alla fine si convenne che per due terzi dell’anno Persefone avrebbe vissuto sulla terra ad allietare della sua presenza la madre e il resto dell’anno l’avrebbe passato agli inferi col suo sposo e signore”. Chi non riconosce in Persefone la personificazione della vegetazione, figlia della terra che compare in primavera a rallegrare gli uomini e d’inverno scompare?
[7] “ Si raccontava che il bellissimo Adone, del quale era innamorato Afrodite o Venere, morisse durante una battuta di caccia, ucciso da un cinghiale. Ella addoloratissima , pregò Zeus di richiamarlo in vita; intanto se n’era invaghita anche Persefone, dea dei morti, e non voleva renderlo alla rivale.Alla fine Zeus sentenziò che per una parte dell’anno Adone rimanesse nel regno delle ombre, e nel resto dell’anno tornasse tra i vivi.La bestia setolosa che uccide Adone non è altri che un simbolo dell’inverno, il cui freddo soffio fa spegnere la vita della natura e Adone è la natura stessa che riprende vigore al ritorno della primavera.
[8] Ibidem
[9] LE VIE DELL’AMBRA
(E. Cantarella-G. Guidorizzi: Lo studio della storia –Dalle origini al XIV secolo, p. 74)
[10] Hellenikos logos,
[11] In quell’occasione il capofamiglia si alzava a mezzanotte e, lavatesi tre volte le mani in acqua dì fonte, si aggirava per la casa a piedi scalzi facendo schioccare le dita e mettendo in bocca fave nere in bocca che poi gettava dietro di sé ripetendo una formula di scongiuro. Si credeva che le ombre si fermassero a raccogliere quelle fave. Allora il capofamiglia ripeteva più volte un’altra formula con cui invitava le ombre a lasciare il suo tetto. Si attribuiva a questa venuta delle ombre le spaventose apparizioni di spettri e altri fenomeni paurosi. 15 N. Fiero, Le guerre sannitiche e l’Irpinia,
[12] Catullo, Carmi, carme cinque, vv. 7 e 13
[13] Apici, De re coquinaria, …Cucutiae…